Il circuito di Indianapolis nei suoi 112 anni di vita non aveva mai accolto una gara di auto a guida autonoma come la Indy Autonomous Challenge di sabato 23 ottobre. Per la prima volta modelli Indy Light con telaio Dallara e motore endotermico 2mila Mazda da oltre 400 cavalli hanno dato spettacolo sui 4mila metri dell’ovale. “Alla fine è stata una sfida di software perché le auto sono identiche, così come la componente sensoristica e quella hardware“, spiega Micaela Verucchi, phd presso l’High Performance Real Time Laboratory dell’Università di Modena (Unimore) e responsabile perception del team EuroRacing. Un altro talento coltivato da Marko Bertogna, uno dei più brillanti docenti ed esperti di guida autonoma che abbiamo in Italia e che dirige il laboratorio modenese.
Due le squadre italiane in missione all’estero: EuroRacing composta appunto da studenti e ricercatori dell’ateneo modenese, di Pisa, dell’Eth Zürich e del Polish Academy of Sciences, e PoliMove composta da ricercatori del Politecnico di Milano e University of Alabama e fortemente sostenuta da e-Novia, la fabbrica italiana di imprese deep tech. Due prime della classe perché, fra le nove squadre partecipanti di ventuno università, solo state le uniche insieme a quelle dell’Università Tum di Monaco di Baviera e Auburn (Alabama) a essersi classificate anche per una seconda manche tecnicamente molto impegnativa.

La complessità delle due manche
Indy Autonomous Challenge è una competizione unica organizzata da Cisco. Rispetto alla più nota RoboRace sfrutta motori a combustione invece che elettrici, prevede un circuito “normale” e soprattutto favorisce lo sviluppo di ogni componente software. Per altro si parla già di una nuova gara a gennaio a Las Vegas e magari in futuro a Dubai.

Questa sfida con le Dallara AV-21 è stata organizzata in due manche. Nella prima era previsto che ogni auto a guida autonoma uscisse dalla pit-lane, eseguisse un giro di riscaldamento, due giri veloci e infine una partenza da fermo con un giro completo evitando ostacoli fisici (nella Roborace per esempio sono virtuali).
Per la cronaca il milione di dollari di montepremi è andato al Tum Autonomous Motorsport dell’ateneo monacense con una media di 218 chilometri all’ora, ma davvero per un soffio, perché EuroRacing aveva compiuto il suo primo giro a 223 chilometri orari. Peccato che l’auto modenese abbia rallentato troppo presto senza tenere conto dei quattro giri di riscaldamento dell’ultimo round e dei due cronometrati: si suppone un piccolo problema di programmazione.
PoliMove aveva impressionato con i suoi 252 Km/h nel giro di riscaldamento, ma una bizza del gps l’ha fatta prima strusciare su un muretto e poi schiantare alla curva 1. Le altre squadre si sono difese bene, ma non sono mancati incidenti e forfait. Insomma, una vera gara.
Nella seconda manche invece due auto concorrenti, partendo dalla stessa velocità di crociera, avrebbero dovuto alternarsi nei sorpassi con la possibilità dai box solo di poter controllare in remoto accelerazione e decelerazione. Una sorta di balletto alternato dove chi non riesce nell’azione viene ritenuto sconfitto.
Alla fine l’organizzazione ha deciso di accontentarsi di avere quattro classificate che hanno dimostrato di essere all’altezza del compito, ma la gara ufficiale è stata annullata. Secondo Paul Mitchell, presidente e amministratore delegato di Energy Systems Network, l’organizzazione no profit che ha collaborato con Dallara per l’evento, le prestazioni raggiunte non erano ancora adeguate alla manifestazione. Da sottolineare poi che tra venerdì e sabato basse temperature e pioggia intermittente non hanno aiutato.
Per comprendere la portata tecnologica della sfida è bene considerare che le auto in corsa avrebbero potuto tutte superare i 250 chilometri orari se le condizioni meteo non fossero state avverse. Ovviamente il limite non è del mezzo meccanico (capace di sfiorare i 300) bensì della guida totalmente autonoma che in base alle circostanze deve percepire la sua posizione, il percorso, le traiettorie, la tenuta e altri elementi. “L’auto è in grado anche di attuare un leggero controsterzo, poi oltre una certa soglia è costretta a rallentare e in caso di emergenza interveniamo noi“, sottolinea Verucchi.
La differenza è nel software
“Al posto del pilota c’è tutta la componente hardware di controllo, nello specifico il regolamento ha imposto l’uso di Intel Adlink. E come gpu la Nvidia Rtx Quadro 8000, che è un modello top da 5mila euro ma più adeguato al training di reti neurali che all’inferenza“, spiega Verucchi. Senza entrare troppo nel dettaglio tecnico è bene sapere che le auto hanno avuto una prima fase di formazione, basata sulla raccolta dati dei sensori, dopodiché in relazione allo scenario memorizzato hanno potuto attuare routine di adattamento al contesto.
Questa però è solo una componente del sistema, perché è la sensoristica che consente al mezzo rapportarsi con l’ambiente. “Tutte le Indy Light Dallara montavano 6 videocamere, due frontali, due anteriori angolate a 120 gradi e due posteriori con analoga posizione, 3 Lidar a stato solido e 3 radar di cui due posteriori, Gps e altri elementi“, aggiunge Verucchi.
Complessivamente le auto sono costate, tra struttura tradizionale e sensori, circa 300mila euro. Non tantissimo se si considera che fino a qualche anno le Google car erano costrette a montare Lidar da oltre 60mila euro.
Guida autonoma e simulazione
“Bisogna considerare che questo è un lavoro che si compie soprattutto al simulatore. Più dati raccogliamo e più il nostro modello virtuale assomiglia a quello fisico e ci consente di affinare i comportamenti autonomi dell’auto“, ricorda la giovane ricercatrice.

In verità è tutto molto più complesso poiché si parla di sviluppare in C++, non c’è nulla di preconfezionato. Almeno questa è stata la scelta del team di Modena, ma a farli distinguere rispetto agli altri concorrenti è stata soprattutto la decisione di comporre il team coinvolgendo non solo ingegneri robotici e informatici (come gli altri), ma anche ingegneri meccanici. Quando in Dallara hanno ricevuto una chiamata riguardante specifiche telaistiche e strutturali c’è stata una levata di sopracciglia. “Ci hanno detto che nessuno aveva richiesto tali informazioni, ma noi volevamo costruire un modello virtuale accurato per avere maggior affidabilità“, puntualizza la ricercatrice.
L’idea di fondo è che se riesci a portare un’auto sportiva a guida autonoma ad altissime velocità poi in prospettiva potrai farlo in sicurezza con modelli più normali. “A me piace lavorare in team e anche il fatto che più competenze possano contribuire alla realizzazione di un grande progetto. Domani mi piacerebbe lavorare in un’azienda che sperimenta queste tecnologie, ma probabilmente più una startup che un colosso. Perché vorrei incidere nei progetti e non far parte solo di un ingranaggio“, conclude Verucchi.
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